L’importante partita della Moldavia
Le elezioni del 30 novembre, banco di prova per l’Est Europa e il Caucaso
La grande insicurezza dovuta alla crisi ucraina esplosa lo scorso febbraio nella regione del Donbass con la sua lunga scia di oltre quattromila morti ha fatto sentire in modo tangibile, i suoi effetti, in tutta la grande area Est europea e caucasica, dove la politica russa è vissuta, a seconda dei Paesi, come un ritorno al passato, oppure, al contrario, come un punto di riferimento (mai peraltro venuto meno). Soprattutto alla luce dei gravi problemi economici che si sono abbattuti sull’UE. La crisi che coinvolge Kiev ha rilanciato il ruolo politico della Moldavia, dove domenica prossima, 30 novembre, si vota per rinnovare il Parlamento: un importante banco di prova per il futuro del Paese e dell’intera area. Altri Paesi in territorio ex sovietico in cerca d’indipendenza, dall’enclave moldava della Transnistria all’Abkhazia, dal Nagorno Karabak all’Ossezia del Sud, alla Cecenia, costituiscono un fronte politico con cui si dovranno confrontare sia Mosca che Bruxelles nell’immediato futuro.
VIAGGIO IN GAGAUZIA, DOVE SI CREDE IN MOSCA
COMRAT – «È difficile dire cosa emergerà dalle imminenti elezioni in Moldavia: per noi, qui inGagauzia, il punto di riferimento resta Mosca. Proprio come hanno chiesto in modo marcato i cittadini lo scorso 2 febbraio nel referendum consultivo che Chisinau non ha riconosciuto e che, anzi, ha fatto di tutto per ostacolare». A parlare è Vitaly Stanciu, 42 anni, consigliere comunale del Partito democratico di Marian Lupu, che abbiamo incontrato a Comrat, capitale (o capoluogo) della Gagauzia. Osservatore attento della realtà politico-istituzionale di questa regione a statuto autonomo che si trova nel Sud della Moldavia e nella quale la maggioranza della popolazione è di origine turca e russa, Stanciu ne ricorda il ruolo indipendentista nella storia. «La Gagauzia ha sempre avuto rapporti privilegiati con il Cremlino, fin dalla sua nascita. Qui, come in Transnistria, la popolazione guarda a Mosca, non a Bruxelles».
Composta di tre distretti – Comrat, Ceadir-Lunga e Vulcanesti – con una popolazione di poco inferiore ai 170 mila abitanti, la Gagauzia fu a un passo dalla rivolta contro il Governo diChisinau nel 1991, dopo lo smembramento dell’Unione sovietica. «In un ventennio le acque si sono calmate – spiega Stanciu – ma i cittadini continuano a non fidarsi della politica della Moldavia: è una questione di storia, di cultura e di mentalità». In questo lembo di terra si parla il gagauzo, una lingua molto simile al turco, ma è il russo che continua a giocare un ruolo centrale tra la gente e nello sviluppo della regione. «Così è pure nelle scuole e all’università». Solo le minoranze, da queste parti, si esprimono in rumeno (che è la lingua nazionale). Indicazioni stradali, pubblicità, insegne dei negozi e attività commerciali, sono rigorosamente in cirillico.
Addentrandosi in Gagauzia, ci si rende subito conto che la regione è endemicamente molto diversa dalla grande area metropolitana di Chisinau. Niente automobili sfarzose e via vai di veicoli commerciali, niente costruzioni moderne che fanno il paio con i vecchi palazzoni di epoca sovietica (in parte opportunamente ristrutturati), sono del tutto assenti gli enormi e sfarzosi «shopping mall» in stile occidentale. Tutto appare più tranquillo e provinciale, nonostante l’impronta della modernità – soprattutto a Comrat – sia comunque avvertibile.
Lingua ufficiale all’università di Comrat è il russo
La «Komrat Devlet Universiteti» è un campus innovativo e che ha l’ambizione di porsi come «polo accademico aperto sul mondo», anche se le lezioni sono tenute rigorosamente in russo. «Nella realtà territoriale della Gagauzia – prosegue il nostro interlocutore – il vero baricentro è a Est». Che settant’anni di storia non possano essere dimenticati in fretta appare chiaro anche dai simboli in cui ci si imbatte passeggiando per le strade del centro di Comrat. Dal busto in onore dell’ex presidente turco Suleyman Demirel, a due passi dall’ateneo, si passa all’imponente statua di Lenin, di fronte al Governo regionale, fino ai numerosi monumenti in onore dei caduti del comunismo sparpagliati un po’ dappertutto, lungo le strade e nei parchi comunali, da Nord a Sud della Gagauzia. «Qui non c’è stata crescita economica, vi è stata un’assenza cronica di leadership politica, per cui non c’è stata urgenza di eliminare i simboli politici del passato».
Stanciu rimarca che «il problema è che siamo in periferia e soprattutto le vecchie generazioni cercavano e cercano punti di riferimento: Lenin è stato un vero leader popolare. Tutto qui».
Tra Est Europa e Caucaso
Una sera del giugno scorso Diana, cameriera del pub «Oscar Wilde» a Suceava – nel sud della Bucovina, Romania, quaranta chilometri dal confine ucraino – si ritrovò a distribuire in tutta fretta coperte di lana agli avventori dei tavoli esterni. La temperatura era precipitata a causa di un vento gelido e improvviso. «È che siamo così vicini alla Russia!» spiegò ai clienti, in quattro lingue, senza smettere il sorriso. «Vicini alla Russia?». S’era bevuta una tuica di troppo, la ragazza?
Da Suceava verso nord ci sono settecento chilometri di Ucraina prima di entrare in Bielorussia, che non è ancora esattamente sotto la giurisdizione del Cremlino, anche se il presidente Lukašenko si considera «fratello minore» di Putin. Procedendo verso est, invece, per entrare in Russia occorrono almeno un migliaio di chilometri. Diana si rendeva conto di queste distanze? Sarebbe come se qualcuno, stringendosi nel cappotto sul lungolago di Lugano, commentasse: «Che freddo! D’altra parte siamo così vicini al mare del Nord!». Eppure la cameriera aveva ragione. Le gente comune in Europa dell’est – nell’Halb-Asien, nella mezz’Asia, come la chiamava lo scrittore K.E. Franzos – «sente» la presenza della Russia in modo viscerale, forse impreciso, ma molto più concreto di tanti analisti di geopolitica che si consumano gli occhi su sofisticati dossier di questo o quel think tank occidentale (sovente, filo-anglosassone). A raccontarci la realtà resterebbero, è vero, i reporter, ma o sono malati di troppo precisionismo («Quanti soldati russi hanno sconfinato in Ucraina? Otto o nove?»), tanto che il lettore stenta a vedere il quadro generale, o la fanno facile («Bandiere dell’UE a Kiev chiedono democrazia», e giù video dove, dietro lo sventolare blu, non si distingue nulla).
La realtà resta semplice e complicata: la Russia «è un impero che ha tempo e non è di ieri» (copyright Nietzsche, nientemeno). Una realista come Angela Merkel – esatto contrario, en passant, delle tante anime belle che s’offendono perché Putin fa politica decisionista e Obama magari, nel migliore dei casi, più nascosta – ha mostrato pochi giorni fa al G20 di Sydney, almeno verbalmente, di avere buon senso pratico: «L’Ucraina non è un problema regionale e può essere solo l’inizio. Qui si tratta della Moldavia, della Georgia e, se si va avanti così, ci si può interrogare pure sulla Serbia e sui Balcani dell’ovest».
Russia come Terza Roma, dunque? I confini nazionali, specie nell’est europeo, così ben equilibrati, paradossalmente, durante la Guerra Fredda, tornano oggi discutibili? La vicenda dell’Ucraina, con Kiev «colpevole» di essersi lasciata sedurre un po’ troppo da Bruxelles e dalla NATO, ha rinvigorito quella che non è solo una suggestione: rotte le uova, fatta la frittata (Kissinger un paio di settimane fa: «Se vuole essere onesto, l’Occidente deve ammettere di aver commesso un errore in Ucraina», tradotto: i negoziati avrebbero dovuto essere più trasparenti), UE e USA hanno ceduto sulla Crimea nell’auspicio che Putin si sedesse al tavolo sul resto dell’Ucraina.
E non è finita. In Occidente gira la speranza che Kiev faccia scuola in futuro, contaminando altre nazioni con la sua «fiera voglia di democrazia/libertà/UE». Possiamo prevedere: Kiev farà scuola, sì, ma a Mosca, la quale potrebbe replicare altrove, per reazione o per espansionismo, la stessa operazione chirurgica e relativamente indolore della Crimea. Da questo punto di vista sarà utile tenere d’occhio quei piccoli, «facili» territori indipendentisti dell’ex area sovietica che possono essere eterodiretti alla bisogna: Abkhazia, Ossezia del sud, Transnistria, Nagorno Karabakh, Cecenia.
Una contesa pericolosa
Con l’eccezione della Transnistria, a ridosso della Moldavia, si trovano tutti nel «Pianeta Caucaso», per citare un bel reportage (in stile Kapuscinski) di Wojciech Gorecki. Si tratta di un territorio di 440 mila chilometri quadrati tra mar Nero e mar Caspio, a nord la pianura del Don, a sud Turchia e Iran. Definirlo strategico è poco.
Seguendo l’elenco, forse non casuale, della Merkel, se il voto del 30 novembre non sarà troppo destabilizzante per Chisinau (e Tiraspol), il prossimo «guaio russo» per Bruxelles potrebbe arrivare dall’Abkhazia, in Georgia. Quest’ultima , con Armenia e Azerbaigian, è stata inclusa nel 2004 nella Politica europea di vicinato, poi è entrata nel 2009, con le altre due e insieme a Ucraina, Bielorussia e Moldavia, in quel Partenariato orientale che Bruxelles usa per «favorire» l’intesa economica con le repubbliche ex sovietiche. Mosca non la sta prendendo bene. L’anno scorso è intervenuta allargando la propria «linea rossa» in territorio abkhazo («serve una zona di sicurezza più ampia intorno a Soci»). Un assaggio, a grandi linee, di «Abkhazia, Crimea del domani»? Intanto a Tbilisi, lo scorso 15 novembre, hanno manifestato in 30 mila contro un accordo che prevede la creazione di forze militari congiunte fra Russia e Abkhazia: «Un passo verso l’annessione», per i manifestanti. Al Cremlino le vacanze sul mar Nero son sempre gradite, d’altronde.
Alberghi Belle Époque a parte, anche l’Ossezia del sud è terreno «conteso» tra UE e Russia. È stata un’avance non da poco quella del premier georgiano Garibashvili a ottobre scorso: «Con noi e con l’Europa i nostri fratelli abcasi ed osseti godrebbero di tutte le tutele necessarie, li invito a pensare al loro futuro, a quello dei loro figli e a immaginare le loro vite senza la libertà e lo sviluppo che garantirebbero loro Tbilisi e Bruxelles».
C’è tensione pure in Nagorno Karabakh. La regione, a maggioranza armena, assegnata in epoca sovietica all’Azerbaigian, s’è autoproclamata indipendente nel 1992. Baku – tra le capitali del Caucaso, la meno filorussa – ha più volte minacciato di riconquistarla manu militari (è in atto nel Paese un riarmo da record). L’Armenia, sventolando i fucili forniti da Mosca, replica in toni allarmanti: «Vedo parallelismi – ha commentato il presidente Sargsyan – tra la vicenda della Crimea e quella del Nagorno Karabakh. Per noi l’autodeterminazione dei popoli è prioritaria e in questi casi non bisogna chiedere il permesso a nessuno».
A livello tecnico, una bella e alta dichiarazione di generosa imparzialità politica. Tuttavia poche settimane fa l’Armenia ha aderito all’Unione economica eurasiatica. Cioè alla «versione sublimata dell’impero russo». Un impero bicontinentale, come Putin sa benissimo, pronto a stringere accordi con la Cina, e sta accadendo, a investire sempre di più sulla Siberia, ad allargarsi a sud, e se c’è da contenere le pressioni islamiste nessun indugio. E pronto, naturalmente, a litigare con Bruxelles.
FONTE: Corriere del Ticino