Il processo è ormai noto: per poter abbattere i costi e incrementare i profitti le imprese portano le loro produzioni in Paesi dove si possono reperire salari da fame, con scarse condizioni di lavoro e assenza di organizzazioni sindacali
Il settore dell’abbigliamento è tra i più attivi in questo campo: l’utilizzo di manodopera a bassi salari e diritti in Cina o in Bangladesh, come in Romania o Moldavia ne sono un esempio.
Le multinazionali, spesso promosse dai governi locali, comprano degli stabilimenti o ne costruiscono di nuovi, vanno a ricattare i lavoratori facendo leva sui loro bisogni di base; così possono realizzare le loro merci a prezzi ridicoli incassando lauti profitti.
La costruzione della filiera si basa proprio sull’idea che è possibile trovare manodopera a bassi salari da sfruttare a proprio vantaggio.
Così facendo una massa crescente di altri lavoratori sempre più impoveriti, è pertanto obbligata a tapparsi il naso e a comprare dei vestiti e calzature a basso costo in una spirale senza fine di corsa verso il basso.
Ma se ci accorgessimo che quei disperati siamo noi?
Nessuno potrà mai sapere se si è trattato di un processo spontaneo o di una strategia preordinata, di quelle che si possono discutere a Davos o in merito agli incontri segreti del club Bilderberg, ma è un dato di fatto che dopo avere messo in ginocchio i piccoli produttori italiani, portando la produzione in Romania, Moldavia, o perfino Cina, ora qualche grande marca sta tornando in Italia a potersi godere i risultati che essi stessi hanno prodotto negli anni scorsi.
Questo accade per esempio nella Riviera del Brenta, area a cavallo tra le province di Padova e Venezia, dove si producono calzature femminili.
Dopo un ventennio di delocalizzazioni di alcuni piccoli e medi imprenditori contoterzisti, che se volevano lavorare se ne dovevano andavano in Romania o chiudevano, oggi alcuni giganti come Luis Vuitton, Armani, Prada, Dior, sono tornati per comprarsi degli stabilimenti o aprirne di nuovi.
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